domingo, setembro 17, 2006

TotÒ Riina-il amico de Provenzano


Salvatore Riina detto "Totò u curtu", nacque a Corleone il 16 novembre 1930. A soli diciannove anni uccise un coetaneo in una rissa. Dopo aver scontato sei anni, ritornò al paese, diventando il luogotenente della banda di Liggio, impegnata ad eliminare il predominio di Michele Navarra sulla cosca della zona. Fu arrestato nel dicembre del 1963 e, dopo alcuni anni di reclusione trascorsi all'Ucciardone di Palermo, fu assolto prima a Catanzaro, nel processo dei 114 e poi nel giugno 1969, al processo di Bari. Inviato al soggiorno obbligato, si diede alla latitanza e diresse le operazioni nella strage di viale Lazio. Preso il posto di Liggio finito in carcere, condusse i corleonesi negli anni Ottanta e Novanta alla realizzazione d'immensi profitti, prima con il contrabbando e poi con la droga e gli appalti pubblici.
Oltre a conquistare il predominio all'interno di Cosa Nostra, sterminando il superboss di Cosa Nostra Stefano Bontade e i suoi fedelissimi, Riina lanciò una pesante sfida allo Stato, eliminando numerosi rappresentanti delle istituzioni e della magistratura e valenti uomini delle forze dell'ordine. Trascorse ventitre anni di latitanza, in assoluta libertà e per lo più a Palermo, nonostante le tracce lasciate dal matrimonio nell'aprile del 1974 con Antonietta Bagarella e dai battesimi dei suoi quattro figli. Fu arrestato dagli uomini del ROS dei Carabinieri il 15 gennaio 1993. Già condannato con sentenza passata in giudicato dalla Corte di cassazione a due ergastoli, a lui vengono anche attribuiti tutti gli omicidi eccellenti decisi da Cosa Nostra negli ultimi decenni. Attualmente è imputato in tutti i più importanti processi per mafia in corso nel nostro paese, a partire da quelli per le stragi in cui persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino.
Fino al luglio del 1997 Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell'Asinara, in Sardegna: in seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli dove, fino alla decisione di ieri della Corte d'Assise d'Appello, era sottoposto al carcere duro previsto per chi commette reati di mafia.

Lunedì 12 marzo 2001, due notizie si sono incrociate in un brutto pomeriggio per l'antimafia: hanno tolto l'«isolamento» a Totò Riina e le scorte fisse ai magistrati più esposti. Diverse le motivazioni, provvedimenti distinti. Ma con segnali e coincidenze che inquietano.
Nel carcere «duro» di Ascoli Piceno il capo dei capi di Cosa Nostra è tornato «a vita comune» perché, dopo un tira e molla con i giudici di Palermo, la Cassazione ha imposto la scelta indicando «i principi di diritto» alla corte di Appello.
E a Palermo, in applicazione della «circolare Bianco (l'attuale ministro dell'interno)», il prefetto ha soppresso i servizi di tutela fissa davanti alle abitazioni di pubblici ministeri e giudici impegnati in processi ed inchieste contro i boss sostituendoli con «pattuglie mobili» che perlustreranno le aree interessate controllando gli edifici.
Dopo una mattina di allarmi, tutti i sostituti della Direzione distrettuale antimafia si erano riuniti alle quattro del pomeriggio nell'ufficio del procuratore della Repubblica Piero Grasso per discutere il provvedimento della prefettura.
Ad un tratto una telefonata ha fatto rimbalzare nel bunker del secondo piano del palazzo di giustizia la decisione presa poco prima dalla corte di Appello. «Riina non è più in isolamento», ha ripetuto Grasso amareggiato ai suoi vice come Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, a magistrati di «trincea» come Gaetano Paci o Antonio Ingroia. E il malumore è cresciuto, nonostante il procuratore abbia poi ridimensionato la portata del provvedimento: «Non appena sarà definitivo un nuovo ergastolo, Riina non vedrà più nessuno». Probabilmente bisognerà attendere la conferma in Cassazione della pena a vita inflitta a Riina e al resto della «cupola» per le stragi (del 1993) di Milano, Firenze e Roma.
Ma non basta per placare la rabbia del presidente dell'antimafia Giuseppe Lumia, pronto ad esprimere «una reazione di sconcerto»: «Riina non è un delinquente comune. Anche ai criminali efferati vanno date le garanzie, ma ai capimafia va applicato un sistema più severo». Un modo per rilanciare una proposta inattuata: «Necessario un "doppio binario" perché la mafia tende a distruggere la nostra democrazia».
Non è tuttavia la prima volta che il boss arrestato nel gennaio del '93 esce dalla cella del «41 bis» per passare l'ora d'aria insieme con altri detenuti. È già accaduto nell'estate del '99 quando per un provvedimento simile Riina passeggiò per mesi con un marocchino finito in carcere per reati comuni. Già allora esplosero polemiche.
Come quelle di ieri, respinte da Mario Grillo, il penalista vittorioso e convinto, codice alla mano, che «la pena accessoria dell' "isolamento" non può durare oltre i tre anni».
Una tesi bocciata in corte di Appello nei mesi scorsi. Di qui il ricorso in Cassazione dove la sesta sezione penale gli ha dato ragione rinviando tutto a Palermo con l'indicazione dei «principi».
Una scelta «tecnica» criticata dal magistrato che indagò sulla strage di Capaci Luca Tescaroli, oggi a Roma: «Viviamo in un Paese senza memoria. L'ammorbidimento del carcere duro era proprio la richiesta di Riina. Così, riprenderà a parlare con l'esterno, mentre si indicano i magistrati come possibili obiettivi di attentati».
Corriere della Sera 13/03/2001

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